Pagina:Atlantide (Mario Rapisardi).djvu/213

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Canto decimo 213


Allora d’avvoltoj neri, deformi
     Una turba, una folla, un nugol venne,
     Di cui parean li artigli àncore enormi,
     Rostri di nave i becchi, e l’ali antenne;
     Antenne che con moti ampj, difformi,
     E vestite da tetre e bronzee penne,
     Fendeano l’aria impaurita e mesta
     Con fragor di tremuoto e di tempesta.

Inorridisce Esperio; e quel che molto
     Cresce il ribrezzo suo, non la paura,
     È che ognun di quei mostri ha umano il volto,
     Se togli il rostro ch’è d’altra natura;
     Ma il suo ribrezzo in altro senso è volto,
     Quando tutti un per un li raffigura,
     E si sovvien con istupor profondo
     D’averli visti e conosciuti al mondo.

Di Stradella il volpon non è colui
     Che il collo irsuto sogghignando inarca,
     L’uom da’ maligni adattamenti bui,
     Che di frodi gravò l’itala barca?
     Quei che il dorso ripiega al cenno altrui
     Non è di Lissa il perfido navarca?
     L’altro il duce non è dell’empio stuolo,
     Che ferì la nizzarda aquila a volo?