L’archipoeta Barabal secondo
Da’ suoi cento trionfi alfin qui posa,
E in adorazion d’un mappamondo
Regio gratta la cetra e un’altra cosa;
Ballano a lui dintorno il giro tondo,
Al suo verso inneggiando e alla sua prosa,
Ebbri mignoni, femminacce impure,
Ruffian, baratti e simili lordure.
Pecoraggin plebea, pazzo talento
Di quella dea che con agevol ruota
Schiaccia a terra le gemme e al firmamento
Con cieco turbinio lancia la mota,
Acrobata virtù che ad ogni vento
Gira con arte ai soli onesti ignota,
Diedero a lui, che in verità n’è degno,
Su questa terra imprescrittibil regno.
Già presso all’antro s’era Esperio tratto,
Ma l’ammonì con voci alate Edea:
Dove t’innoltri più? férmati; e tratto
Per un braccio, in tal dire, a sè l’avea:
Qui, fuor che il mostro e chi com’esso è matto,
Entrar mai nessun altro abbia in idea,
Chè questa bestia per costume antico
Chi fra’ suoi non s’ingreggia ha per nemico.