Pagina:Avventure di Robinson Crusoe.djvu/178

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ed insegnandogli a parlare e a capire quand’io lo chiamava col suo nome Poll, che finalmente imparò a profferire schietto anch’esso: fu questa la prima parola ch’io avessi udita da altra voce fuor della mia dal primo istante del mio soggiorno in quest’isola. Non vi crediate per altro che fosse questo il mio principale lavoro; ne era bensì il conforto, perchè, come dissi, io m’era accinto a grandi faccende.

Una di quelle che mi stettero lungamente a cuore si fu il fabbricarmi qualche vaso di terra, cosa di cui tanto mancava, nè sapeva in qual modo provvedermene. Pure, pensando all’estremo caldo del clima, non giudicai difficile il poter trovare una tal sorta di creta onde si potesse fare alla meglio una pentola che, seccata al sole, fosse dura e forte abbastanza per essere maneggiata e contenere qualunque cosa non liquida ed atta ad esservi conservata entro. E poichè tal genere di vaso mi era necessario nelle mie faccende del grano, della farina, ec., allora argomento principale de’ miei pensieri, mi determinai a far questi vasi ampi quanta mai si poteva ed opportuni, come gli orci, a contenere tutte le cose che vi si volessero racchiudere.

Moverei a compassione o piuttosto a riso il leggitore se gli dicessi a quanti sgraziati modi io m’appigliai per dare alla mia pasta una forma; quali brutte, sgarbate cose ne uscirono! quante di queste si schiacciarono; quante andarono a male, perchè la creta non era abbastanza salda per sostenere il proprio peso; quante creparono in forza dell’eccessivo calore del sole cui le aveva esposte prima del tempo; quante andarono in pezzi col solo moverle o prima o dopo di essere seccate; se io gli dicessi in somma che dopo immense fatiche per trovare la creta, per cavarla, per mescolarla con sabbia, per portarmela a casa, per modellarla, non arrivai su le prime, e ci vollero poi anche due mesi per fabbricarmi due orride cosacce di terra, cui non ardisco dare il nome di orci.

Pure sconci com’erano questi due vasi, poichè il sole gli ebbe seccati e induriti, gli alzai pian piano da terra e li collocai entro due grandi canestri di vimini fatti da me a posta per contenerli e difenderli ad un tempo dal rompersi; poi siccome tra il vaso e il canestro rimaneva un vano, lo colmai con paglia d’orzo e di riso pensando che, se questi due vasi si mantenevano asciutti, avrebbero contenuto il mio grano e fors’anche la mia farina, quando il primo sarebbe macinato.

Benchè i miei disegni m’andassero grandemente fallati rispetto