Pagina:Avventure di Robinson Crusoe.djvu/825

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memorie biografiche 733

vestito di recente e mantenendo, ciò non ostante, tutto l’antico tatto e discernimento del corpo antico per regolarle.

Riesce talvolta in ciò quell’autore il quale trasformandosi evidentemente in un personaggio immaginario, adotta nello scrivere que’ sentimenti e falsi giudizi che in questo suo finto personaggio ha supposti. Che cosa sarebbe la storia del vicario di Vakefield se non fosse raccontata dal più umano ed in un dal più degno fra quanti pedagoghi portarono sottana ecclesiastica, dal vicario medesimo? Che sarebbero i più interessanti e simpatici ed in uno più comici tratti del Castello Rockrent, se narrati da chi fosse stato men riguardoso alla dignità gentilizia di quell’immortale Thady, che mentre nella dinastia che si proponea celebrare non trovava un solo individuo perfettamente giusto, era poi nel più desolante degl’imbarazzi se capitava in quelli della cui perfetta perversità non potea dubitare egli stesso? Anche il Proposto di villaggio del signor Galt, e più ancora gli Annali della Parrocchia, scritti da questo reverendo, potrebbero essere citati fra le opere spettanti a tal classe. Lo stesso Wordsworth, in uno de’ suoi più attraenti poemi, ha assunto il personaggio d’un uomo di mare venuto a ritirarsi stabilmente in campagna.

Tutti questi nondimeno sono caratteri di mascherate; mentre crediamo che nei racconti del de Foe, il carattere della maschera sia il naturale carattere dell’uomo postosi in maschera. Il nobile Ufiziale di cavalleria, per esempio, parla ad un dipresso la stessa sorta di linguaggio che è tenuto da Robinson Crusoe, e poco più di questo dà a vedersi pratico della società; la differenza sta in ciò che l’ufiziale di cavalleria ha modelli di granatieri dintorno a sè, Robinson di marinai. Dubito molto se il de Foe avesse potuto cangiare il suo stile famigliare, il suo ripetersi, le sue perifrasi con altre maniere o più triviali o più eleganti. Teniamo quasi per fermo che il suo scrivere fu connesso con la naturale sua indole e con l’andamento ordinario de’ suoi pensieri e delle sue espressioni, e che, come scrittore, non fu tanto felice vestendo caratteri accattati quanto lo fu dando carriera al suo proprio.

Un tal punto merita d’essere chiarito più da vicino, il che ne trae a far particolare menzione d’un breve opuscolo del de Foe, intitolato: «La vera storia dell’apparizione di una mistriss Veal fattasi vedere un giorno dopo la sua morte ad una mistriss Bargrave, abitante a Canterbury, nel giorno 8 settembre del 1705, la quale apparizione raccomanda la lettura dell’opera del Drelincourt intitolata: Scudo del Cristiano contro alle paure della morte.» Questo opuscolo è degno d’essere menzionato così per la singolarità della sua origine e per la poca o niuna nozione che se ne ha oggidì a malgrado della sua grande popolarità, come soprattutto perchè è un saggio de’ più segnalati dell’arte posseduta dall’autore nell’accreditare le più improbabili leggende con la sua maniera speciosa e seria di raccontarle.

Un intraprendente libraio si era arrischiato pubblicare con le stampe un gran numero di esemplari di un’opera del reverendo Carlo Drelincourt, ministro della chiesa calvinista a Parigi, trasportata in idioma inglese dal signor d’Assigny col titolo: Scudo del Cristiano contro alle paure della morte con parecchie regole per prepararsi a morir bene. Comunque certa sia la morte, non è questa fatalmente una prospettiva che renda grandemente ansioso il pubblico di contemplarla, onde il libro del Drelincourt, non cercato da chicchessia, rimaneva un capitale morto nella bottega dell’editore. In quest’angustia, il povero tipografo si volse al de Foe per vedere se avesse modo di dare un di que’ passaporti che si conoscano sì bene nel mondo letterario d’allora, come si conoscono sì bene in quello d’oggidì, onde riscuotere la sua