Pagina:Bandello - Novelle. 1, 1853.djvu/27

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novella ii. 23

una mazza d’oro in mano, venirsene innanzi agli scudieri i quali il mangiar del re portavono in vasi d’oro di finissimi pannilini coperti, e i panni erano tutti trapunti e lavorati di seta e d’oro a bellissimi lavori. Questo ufficio di senescalco era sommamente stimato, e communemente a uno de’ primi baroni del reame soleva darsi. Il perchè, detto Ariabarzane, oltre che era di nobilissimo legnaggio e tanto ricco che quasi nessuno uguale di ricchezze nel reame si trovava, era poi il più cortese e liberal cavaliere che in quella corte praticasse, e tanto a le volte faceva il magnanimo e senza ritegno spendeva, che, lasciando il mezzo in cui ogni virtù consiste, molte fiate a gli estremi inchinando, cadeva nel vizio de la prodigalità. Onde assai spesso parve che non solamente col suo re volesse ne l’opere di cortesia agguagliarsi, ma ch’egli cercasse con ogni sforzo d’avanzarlo o vincerlo. Un giorno adunque fattosi il re portar lo scacchiero, volle che Ariabarzane seco agli scacchi giocasse. Era in quei dì tra’ Persiani il giuoco degli scacchi in grandissimo prezzo, e di tal maniera un buon giocatore era stimato, come oggidì tra noi è lodato un eccellente disputatore in cose di lettere e materie filosofiche. Onde assisi l’uno a rimpetto de l’altro ad una tavola ne la sala reale, ove erano assai gran personaggi che il giuocar loro attenti e con silenzio miravano, cominciarono a la meglio che sapevano l’un l’altro con gli scacchi ad incalciarsi. Ariabarzane, o che meglio del re giocasse, o che il re dopo non molti tratti al giuoco non avesse l’animo, o che che se ne fosse cagione, ridusse il re a tale che non poteva fuggir che in due o tre tratti non fosse sforzato ricever scacco matto. Di questo il re avvedutosi, e considerato il periglio de lo scacco matto, divenne assai più del solito colorito in faccia, e pensando se v’era modo di schifar lo scacco matto, oltre il rossore che in faccia gli si vedeva, con squassare il capo ed altri atti e sospiri, fece conoscer a chiunque il gioco guardava, che troppo gli rincresceva l’esser a simil passo giunto. Del che accorgendosi il senescalco e veggendo l’onesta vergogna del suo re, nol potè sofferire, ma fece un tratto, movendo un suo cavallo a posta per aprire la strada al re, di modo che non solamente lo liberò dal periglio ov’era, ma lasciò un suo rocco in perdita senza guardia alcuna. Onde il gioco restava uguale. A questo il re, che troppo ben conosceva la generosità e grandezza d’animo del suo servidore, che in altre cose assai esperimentato aveva, fingendo non aver visto di poter pigliare il rocco, diede de le mani ne gli scacchi, e levatosi in piede disse: non più, Ariabarzane. Il