Pagina:Bandello - Novelle. 3, 1853.djvu/399

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Pantea: – Moglie mia da me più amata che la propria vita, che cosa ti pare che io far debbia a ciò che e per te e per me io a tanto re soddisfaccia e non possa esser con ragione detto ingrato? – E che cosa puoi tu, marito mio, fare di te e di me più degna che imitar tanto eccellente e vertuoso re, e poi che contraria fortuna del nostro re ci ha privato, servir a costui che valorosamente s’ha acquistato il regno? – Fu adunque cagione' 'Pantea che Ciro non solamente reintegrò Abradato, ma appo sè nel nel numero dei più cari ritenne e in molte imprese adoperò, ne le quali, dando di sè Abradato odore di valente soldato e di saggio capitano, acquistò di modo la grazia di Ciro ch’egli lo chiamava per amico e voleva che da tutti «l’amico del re» fosse chiamato. Nè per tutto questo Ciro volle veder Pantea, dubitando forse non la bellezza di lei l’inducesse a libidine. Abradato sempre pregava Giove che gli concedesse d’esser degno marito di Pantea e degno amico di Ciro. Facendo poi la guerra Ciro a Tomiri reina de’ messageti, fu, valentemente combattendo, Abradato morto, il cui corpo fu portato a Pantea. Ella poi che pianto amarissimamente l’ebbe, non volendo più star sottoposta a’ dubiosi casi di fortuna, preso un acutissimo coltello, si passò le canne de la gola e, boccone lasciatasi cadere sopra il petto del ferito e morto marito, il suo sangue mischiò con le piaghe di lui e sovra quello finì i giorni de la vita sua, lasciando dopo sè de le sue vertù eterno nome. Che diremo noi qui, signore mie, de l’animo di questa rara ed incomparabile donna? Certo l’animo suo era degno d’esser conservato lungamente in vita e non levarsi del corpo con sì sanguinario fine. Nondimeno se in cosa alcuna si può ripigliare, è questa sola: che a l’altre donne invidiò la sua vertuosa compagnia, che a molte poteva esser essempio di ben fare, chè in vero mai non si deveva ancidere, ma aspettare che naturalmente morisse.


il Bandello al reverendo dottore teologo