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LETTERA TERZA

Di Gianpaolo Rovigmo a Lodovico Ricci

[Bisogna contentarsi, anzi godere anche del poco lucro procacciato da oneste fatiche. Sola cosa degna veramente di rimpianto lo star lontano dalla patria e dalla famiglia. Ma anche a ciò val meglio rassegnarsi.]

Ho piacere che nessuna delle mie lettere sia ita smarrita, poiché Ella mostra d’averne una tanta fame. L’affettuosa sua degli otto m’è pur venuta in mano iersera, e m’ha rallegrato il sentire che la di lei convalescenza vada avanti di bene in meglio. Ben le vo’ dire, signor Lodovico, ch’Ella va errata nel darsi ad intendere ch’io faccia i fatti miei troppo magramente: cioè ch’io non guadagni in proporzione delle mie incessanti fatiche. Gli è l’amor suo per me che le fa gabellare per buona una tale opinione; ma se Vossignoria farassi a considerarla un po’ meglio, troverá ch’io m’ho la mia parte de’ beni di questo mondo quanto qualsivoglia. Prima di tutto, la santa provvidenza m’ha data una salute che non è mai guasta dalla piú piccola febbricciatta, dal piú piccolo mal di capo. Le pare, signor mio, che questa non sia una sfondolata ricchezza? E non me la striscio io pian piano giú pel colle della vita senza essere, come a dire, strangolato da que’ tanti bisogni che strangolano tanti e tanti? Non ho io di che mangiare, di che vestire, di che pagarmi un alloggio? Che vorrei di piú, povero vermicciuolo ch’io sono? Vorrebb’Ella ch’io m’avessi in buondato di quel soverchio, nel quale troppi uomini fanno consistere il summum bonum di quaggiú? Via, via, con questi sciocchi pensieri! Io so, signor Lodovico, ch’io potrei fare colla metá di quanto il Signor Dio mi manda, senza debito di disperarmi! Gli è vero che mi tocca affacchinarmi ogni di dell’anno; ma s’io mi tengo in bilico e s’io non tombolo in nessuna strettezza, che vogl’io di piú? Non son io nato per guadagnarmi un pezzo di pane col