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LETTERA DICIOTTESIMA

di Gaudenzio Dotto a Felice Tabasso

[Anche in Italia gli uomini di studi, quando sanno far conoscere al mondo il loro sapere, sono presto condotti a vivere ne’ comodi, se non nell’opulenza, tanto nelle piccole quanto nelle grandi cittá.] Piano, signor Tabasso, piano con queste strapazzate al bastardo secolo, con queste intemerate alla transandata Italia! Io non posso in coscienza mia dire a coro con voi e con tant’altri che l’Italia in questo secolo non rimuneri le lettere e che le tapinelle muse se ne vadano a processione per ogni nostra cittá coperte di cenci, maninconose, sconsolate, gemendo e piangendo, sospirando e singhiozzando e strappandosi i capegli di capo a belle ciocche. Signor Tabasso, questo è un esagerare da poeti ciuscheri, queste sono smanie di giovani rotti da un’ingiusta scontentezza, o, per dirvela in volgare, sono ciance senza sostanza, lamenti irragionevoli e nulla punto fondati sulla veritá delle cose. Ditemi, col nome della Madonna, sbarbatello troppo fiero, non abbiamo noi di molte universitá su e giu per tutta Italia? — Certo che di si! — E in quelle universitá non abbiamo noi di molte cattedre? — Non tei posso negare: n’abbiamo di molte centinaia e d’ogni ragione. — E a chi si dánno quelle cattedre? si dánn’elleno a’ giudei? se le beccano i turchi? — Signor no, si ripartiscono fra que’ nostri cristiani che coltivano le lettere, che van dietro alle muse. — E vi pare che cotesto sia poco negozio per cotal gente? E mi tornerete voi a dire che le lettere sono trascurate, derelitte, vilipese? che le muse s’addolorano, si scapigliano, si disperano, perché chi le ama non trova di che masticare? Ma zitto, signor Tabasso, ché quelle varie centinaia di cattedre non sono né tampoco la quarta parte, anzi nemmanco la