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vere, parea Satanasso in persona; e per tale lo avrebbe pigliato il Maso, a ciò aiutando il mal animo con cui si sogliono guardare i nemici, se in lui non avesse ravvisato un vecchio conoscente, e proprio uno di que’ due forastieri, che egli aveva serviti tredici mesi addietro all’osteria di mastro Bernardo.

Si fermò allora, pensando tra sè come avrebbe potuto fare per dar negli occhi a quell’uomo. Intanto il Tanaglino, che non aveva le stesse ragioni per trattenersi, gli diede una spinta nelle reni.

Il Maso fu pronto a cogliere quella dolorosa occasione. Tanto è vero che tutto il male non vien per nuocere.

— Oh insomma! — gridò egli, voltandosi, tra piagnoloso e stizzito. — Che è ciò? Son forse un cane, da pigliarmi a pedate? Non voglio andare più oltre; voglio parlare a quell’uomo delle bombarde.

— Quell’uomo! — sclamò il Tanaglino, mentre raddoppiava la dose, — Messer Anselmo Campora, il capo dei bombardieri della repubblica, tu lo chiami quell’uomo?

— Sicuro! — rispose il prigioniero, cansandosi. — Lo chiamavo quell’uomo; ma ora che tu m’hai detto il suo nome, lo chiamerò come va. —

E alzata la voce, mentre, inseguito dal Tanaglino, correva alla volta delle artiglierie, si messe a gridare con quanto fiato ci aveva in corpo:

— Messere Anselmo! ohè; messere Anselmo, di grazia! —

Il Picchiasodo volse la faccia da quel lato, non senza un tal po’ di malumore, perchè appunto allora stava mettendo una zeppa di legno sotto la tromba della signora Ninetta, per alzarne un tratto la mira.