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Si pentì dell’atto, come in fin di vita non si sarebbe pentito de’ suoi peccati; ma il pentimento non gli serviva un frullo, poichè Anselmo Campora s’era alzato da sedere ed accennava di voler uscire dalla baracca. Ora il Maso fu pronto ad intendere che se il Picchiasodo lo coglieva là dietro, anche in atteggiamento di chi dorme, egli era un uomo spacciato. E intender ciò e pensare al rimedio, fu un punto solo. Di colta fu in piedi, come se dentro ci avesse avuto una molla; spiccò un salto da banda, indi un altro, a guisa di scoiattolo, e trovato per sua ventura un carro di bagaglie, si accoccolò dietro a questo, prima che il Picchiasodo fosse giunto sul luogo d’onde gli era parso di sentire lo strepito.
Così fu salvo il mariuolo. Anselmo Campora venne dietro la capanna, con quel suo cipiglio che non prometteva niente di buono; guardò tutto in giro e non vide nessuno; svoltò la cantonata e si ricondusse dall’altra parte fino all’ingresso della sua modesta abitazione, senza vedere il prigioniero, nè il paggio.
— Che dire? — borbottò, stringendosi nelle spalle. — Avrò sognato ad occhi aperti.
E tornò al suo colloquio col Sangonetto, che gli dovea premer di molto, come il savio lettore argomenta.
Frattanto, il Maso ci avea avuto una gran battisoffia, che l’allontanarsi del Picchiasodo non valse a chetargli d’un tratto. Però stette lungamente nel suo nascondiglio; ci stette per ricogliere il fiato ed anche un pochino per richiamare i pensieri a capitolo.
Non c’era da scherzare; egli, il Maso, umilissimo soldato, pur dianzi ragazzo d’osteria, ci aveva in corpo un segreto da cui dipendeva la sorte della sua terra.