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I.
Nel quale si discorre del bel tempo e si fa la conoscenza di qualche personaggio.
Era uno dei primi giorni di febbraio, nell’anno di grazia 1857, ed era, a mal grado della stagione, una bella giornata. A Genova le belle giornate, anco nel cuore dell’inverno, sono la cosa più naturale del mondo. Il cielo è sereno; il sole non si contenta di mostrarsi in tutta la sua splendidezza, ma vi scalda sovrammercato; l’aria è tiepida, sarei per dire balsamica. E perchè no? In questa città i fiori durano nei giardini come nelle stufe, solo che vi pigliate la briga di ripararli dal vento. Quando fanno di queste giornate, i genovesi escon dal chiuso e vanno a passeggio, benedicendo alla provvidenza, che ai giorni di pioggia, di vento e di neve, alterna qualche settimana di questi giorni, che di là dalle Alpi ne vede pochi l’Europa nelle sue più famose primavere.
Per le strade e pei vicoli, non essendo giorno di festa, si vedeva il solito viavai: ma un attento osservatore avrebbe facilmente notata l’assenza dello zerbinotto e della signora elegante. Infatti, era un lunedì, e il veglione del teatro Carlo Felice era finito alle sei del mattino. Le belle dormivano; e l’ora dei belli, come la dicono a Genova con frase molto gustosa, non era anche suonata. I belli duravano ancora nel primo sonno, quantunque fossero le undici all’orologio delle Vigne, le undici e un quarto a quel della Posta. Notiamo di passata che gli orologi di Genova non sono punto dissimili da quelli delle altre città. Tutto il mondo è paese.
Il sole (non si sgomentino i lettori, che qui non si fanno descrizioni retoriche) il sole indorava i tetti di lavagna e fa-