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XXII.

Alla dimane, quando la lettera fu al suo ricapito, Guido ebbe dolore d’averla scritta. Ora gli pareva di soverchio patetica, ora troppo compassata; ad ogni modo poi gli pareva che in cambio di scriverla, avrebbe saviamente e cortesemente operato ad andare in persona a licenziarsi dalla donna gentile.

Tutti ragionamenti dettati dall’agonia del non doverla vedere più mai, quella bellissima che lo aveva ridotto a quel punto. Ma la era fatta, e non c’era rimedio.

La giornata passò non affatto male, tra per l’operosità concitata degli apprestamenti di viaggio e per le corse che ebbe a fare fuori di casa.

C’è sempre un mondo di nonnulla a cui provvedere, innanzi di cangiar paese. C’è, verbigrazia, da pensare alle cose che si porteranno seco, e a quelle che si lasciano: c’è da ordinare le sue carte, bruciare le inutili e quelle segnatamente che risguardano altrui. E qui, fermate, commozioni ad ogni tratto! In que’ foglietti che vengono tra le mani, foglie disperse della Sibilla, v’hanno pensieri fuggevoli che fanno ricordare con amarissima voluttà il giorno in cui furono scritti; v’hanno lettere che bisogna rileggere, fragranze del passato che si aspirano più e più volte, quasi per provare da capo sensazioni lontane; v’hanno di certi fogli, di certi ricordi