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dà tempo al tempo e vittoria alla consuetudine. Il conte Attilio, finalmente, era il babbo di quei due diavolini che empivano dei loro strilli, delle loro risa argentine, delle loro amabili prodezze tutta la casa, dandole un’aria di gioventù, di freschezza, che non aveva avuta mai; neanche ai bei tempi di Fulvia, figlia unica, sola creaturina là dentro, e del sesso meno chiassoso. Quel conte, poi, era pentito degli errori commessi; e con una gravità costante, di tutti i giorni, di tutte le ore, dava fidanza di un mutamento, che certo era un bene per lui, ma che sarebbe poi sempre tornato di grande utilità alla famiglila. Aggiungete che quel conte non disprezzava il Bottegone e mostrava di prendere amore ai fatti del piccolo commercio. Quell'amore poteva esser nato dal bisogno; ma quanti amori non cominciano così? Il bisogno si muta in abitudine; l’abitudine genera la curiosità; la curiosità si trasforma in sollecitudine: la sollecitudine è già principio d’amore, e non d’amor pazzo, che suole esser fuoco di paglia, ma severo, profondo, continuo, come fuoco di querce, che con un cepperello vi riscalda per tutta una sera d’inverno.
Da principio, per verità, il signor Demetrio si sarebbe passato di quel ficcanaso; lo avrebbe veduto più volentieri a passeggio che non al Bottegone. Poteva mantenere quella bocca inutile, ed altre ancora, senza sentirne alcun danno. Ma quella bocca inutile voleva rendersi utile; che farci? Dopo tutto, non era un gran guaio, e si poteva lasciar correre la mania operosa di quel poveraccio, che aveva esordito con una vera girandola di disegni, uno più stravagante dell’altro, ma poi a mano a mano aveva abbassate le ali, vedendo coi proprii occhi le cose e ricredendosi umilmente di tutte le sue scioccherie.
— Come avevi ragione, babbo! — diceva egli al signor Demetrio. — Come avevi ragione a ridere sotto i baffi, della mia tracotanza! Vedo bene, ora che ci ho fatto un po’ di pratica, che avevi pensato a tutto, e che qui non c’è da far nulla di nuovo. Il Bottegone non può dare più