Pagina:Bartoli - Dell'uomo di lettere II.djvu/122

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Perché non può con lo sgardo penetrarvi all’ imo, giudica essere un’ abisso di sapienza. Così ancor nelle Lettere, Alba, ligustra cadunt, vacciniaa nigra leguntur.

Quindi alcuni prendono per ambizione d’ ingegno affettazione d’ oscurità, e con l’ arte di non farsi intendere pretendono di farsi adorare. Si mutano in più forme, che Protei, per uscir delle mani di chi li tiene, sì che non li conoscano per quel che sono. Inventano più geroglifici dell’Egitto, Perché si creda esservi un midollo di soda verità sotto una corteccia di finti misterj. Ogni loro periodo è un nodo Gordiano, che promette un’ imperio, ha chi lo scioglie. Confondono le parole più di quello che già fossero le foglie della Sibilla disordinate dal vento; e lasciano, che i miseri creduli vi cerchino dentro gli oracoli, accozzandole in sensi, che a gli Autori mai non caddero in pensiero.

Altre volte fanno comparire i loro concetti come le Deità in Teatro, avvolte in un gruppo di nuvole. Mostrano una piccola particella di qualche aggiustato discorso, per fare con essa credito al rimanente che in una torbida piena di confusi pensieri si perde. Leggere gli scritti di costoro, pare che sia pescare Calamai, accortissimi pesci, che da gli occhi e dalle mani altrui maliziosamente s’involano, intorbidando il chiaro dell’ acque ispargervi una nuvola di certo negro umore di che son pieni. Così la lor penna al pari di questi pesci,

Naturam juvat ipsa dolis, ci conscia sollis,

Utitur ingenio.

Oh quante volte non istà nulla sotto, dove altri crede servi grandi misterj! Già che ordinaria usanza di costor è coprire, come Timante, col velo, quello, per cui esprimere non hanno né ingegno né arte che basti.

Con ciò par loro d’ essere novelli Eracliti (cui cognomen Scotinon fecit orationis obscuritas), se, d’ essi ancora si dica ciò che degli scritti dell’ altro disse Pitagora: Opus ibi esse Delio natatore. Gareggiano con Apolline Delfico d’ autorità e di credito, se, come lui,