Pagina:Bartoli - Dell'uomo di lettere II.djvu/7

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caduti dal nido e non ancora impennati, se li prendono in casa, e, quasi abbandonati ed esposti, per propri figli gli adottano. La vergogna di parere ignoranti vince in essi l’infamia d’esser ladri; e non ascoltan Sinesio, che dice, magis impium esse mortuorum lucubrationes, quam, vestes furari quod sepulchra perfodere dicitur. O quanti, se potessero uscir di sotterra o trarre almeno il capo fuor delle tombe, in vedere le proprie fatiche fatte eredità di chi niuna ragione aveva di succedere ab intestato, direbbero con quel disperato Pastore di Mantova:

Insere nunc, Melibæe, pyros; pone ordine vites.

Modestissima legge di que’ non meno bravi che discreti Pittori della Grecia osservata in ogni tempo, era, onorare la memoria de’ valenti maestri di quell’arte con non metter pennello a compimento d’opera, ch’essi prevenuti dalla morte avessero lasciata o senza l’ultima mano o imperfetta; il che era un dire, che più belli erano, quegli avanzi così dimezzati e tronchi, che non se per man loro fossero esattamente compiuti. Di questo parlando lo Storico, Illud perquam rarum, disse, ac memoria dignum etiam, suprema opera Artificum imperfectasque tabulas, sicut Irin Aristidis, Tyndaridas Nicomachi; Medæam, Timomachi, et Venerem Apellis, in majori admiratione esse, quam perfecta.

Or nelle Lettere non v’ è per molti legge di sì buon termine o di tanta lealtà, perché troppo più del dovere, e ognuno ingordo della lode d’uomo d’ingegno: perciò si metton le mani nelle imperfette opere altrui, non per compirle all’Autore, ma per incorporare, contra ogni buona regola di giustizia, il principale altrui al suo accessorio.

Chi ritruova un tesoro ne’ suoi poderi, abbiasel tutto (concede l’Imperador Adriano); ma se ne gli altrui, si riparta, e ne abbia la metà il padrone del campo. Legge, se giusta ne’ danari, nelle ricchezze dell’ingegno giustissima.

Ma i terzi sono da non soffrirsi; quei, che alle fatiche