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Pagina:Barzini - Dal Trentino al Carso, 1917.djvu/240

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230 la nuova linea si rafforza


spinato e ripartono correndo. «Qua, date una mano! su, forza!» — squadre di soldati ansanti portano «cavalli di Frisia», enormi grovigli di ferro, e domandano aiuto. Fuori, nascoste, vigilano le sentinelle avanzate. Lungo le nuove trincee, immobili, estranei al lavoro, l'occhio alle feritoie, attenti, stanno gli uomini incaricati della prima difesa. Hanno disposto intorno a loro pacchi di cartucce e granate a mano. Di tanto in tanto si scuotono, imbracciano il fucile con gesto pronto, mirano, sparano. Delle pallottole nemiche arrivano a raffiche, scocchiano sui sacchi o passano alte con un sibilare di frustata. Nessuno, ci bada. Ma ogni soldato lavora presso al suo posto di combattimento, pronto a correre alle armi. I fucili si allineano appoggiati al parapetto, con le giberne e le baionette appese alle canne. Gli ufficiali vanno e vengono sorvegliando, facendo urgenza. Tutti, ufficiali e soldati, sono sporchi di fanghiglia fino all’elmetto; le loro uniformi hanno preso il colore rossastro del terreno. Sembrano fatti della stessa sostanza della montagna. Da lontano questi uomini si direbbero dei detriti del suolo che si muovono.

In certe posizioni la fronte si fortifica sulle rovine dei trinceramenti nemici espugnati. Qui il formicolìo del lavoro s’imbuca in uno sconvolgimento spaventoso, fra sgretolamenti da frana, entro una confusione di pietrame, cosparsa