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146 capitolo vii.


per guardare quel nuovo essere che irrompeva nella pace dei loro pascoli. L’osservazione non parve le rassicurasse molto, poichè subito si rimisero a fuggire in fila e scomparvero.

Molto raramente incontravamo degli uomini.

Cinque o sei mongoli a cavallo tentarono d’inseguirci: erano a mezzo chilometro sul nostro fianco e galopparono a lungo gesticolando.

Improvvisamente sulla prateria deserta vedemmo biancheggiare qualche cosa che ci parve un palazzo. Un palazzo con altre costruzioni intorno, piccole e bianche. Ci dirigemmo verso quella strana colonia di edifici. Quando fummo vicini si presentò a noi una visione di tempi remoti.

Chi non conosce, per le sapienti ricostruzioni degli archeologi, gli stili delle artiche civiltà asiatiche? Pensando all’aspetto che dovevano presentare Babilonia o Ninive, chi non s’è raffigurato degli edifici quadri e massicci, dalle pareti leggermente inclinate come tronchi di piramidi — che danno l’illusione di scorci maestosi — dalle finestre e le porte più larghe alla base come le porte e le finestre dei mausolei, terminati a terrazza, semplici e grandiosi come tombe?

Alcune rovine dell’antico Egitto offrono l’esempio di quella linea piramidale che dà alle mura una stabilità millenaria ed una illusione d’ingigantimento che produce un meraviglioso effetto di prospettiva, come se il decrescere delle larghezze in alto fosse dovuto ad elevazioni prodigiose. Quando la fotografia ci ha rivelato Lhasa abbiamo ritrovato quella sagoma, e siamo rimasti sorpresi dalla straordinaria severità biblica della città interdetta che ci mostrava ancora vive forme architettoniche di civiltà lontane, forme che non le erano giunte dall’India con la religione, nè dalla Cina con la sovranità politica, ma che dovevano esserle state trasmesse dall’Occidente asiatico in un passato vecchio di venti o trenta secoli. La reclusione, l’immobilità, la quiete ed il Buddhismo, che hanno fatto del Tibet un santuario, hanno mantenuto la tradizione se non il senso d’un’arte.