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380 capitolo xvii.


ticabile. Giunti ad un passaggio a livello della ferrovia, come già avevamo fatto fra Kainsk e Krasnojarsk, chiedemmo ricovero al cantoniere. Non volevamo ricorrere ancora all’incatenamento della ruota per vincer il fango. Ho dimenticato di dire che lo stratagemma della catena aveva i suoi inconvenienti, e gravi, che lo rendevano sconsigliabile; la catena tagliava la pneumatica, e, quel che è peggio sforzava i raggi della ruota indebolendone l’attaccatura al cerchione. La ruota motrice sinistra cominciava a darci delle preoccupazioni; aveva delle fessure agli alveoli dei raggi, e talvolta scricchiolava. Rompere una ruota significava rimanere irrimediabilmente per la strada. Dovevamo andar cauti.

E del resto la Siberia ci aveva insegnato a dominare le impazienze. Ci conferiva un po’ di quel fatalismo che è il fondo del carattere slavo, e che probabilmente deriva appunto dall’abitudine di trovarsi di fronte a delle difficoltà ineluttabili imposte dall’inclemenza del clima. Si può avere qualunque urgenza laggiù, si può essere sotto la pressione del più grande bisogno, ma quando il tempo dice: Fermi! — bisogna rassegnarsi e fermarsi. La necessità di piegarsi a questa violenza, di aspettare indefinitivamente, finisce per dare serenità alla forzata rinunzia della propria indipendenza; sottomettersi a delle volontà superiori diventa un istinto; si piega docilmente e senza dolore il capo alla tempesta come all’ukase, all’inondazione come agli ordini della polizia. Agli uni e agli altri si dice: Nitchevò! — Il primo autocrate della Russia non è lo Zar: è il clima.

Quanto tempo saremmo dovuti rimanere fermi? Il cielo era oscuro, carico di pioggia come se non avesse mai piovuto. Il cantoniere della ferrovia ci diceva che avremmo trovato un sessanta verste di pessimo terreno, ma che poi la strada sarebbe divenuta buona, anche sotto la pioggia, perchè sabbiosa. Dopo un’ora vedemmo che le nuvole non correvano più da ponente a levante, ma si spingevano disordinatamente verso il sud in una fuga fantastica. Aveva dunque cambiato vento. Eravamo arrivati ad intendercene di venti siberiani più d’un compilatore di lunari.