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400 capitolo xviii.


Le troike furono nuovamente attaccate, galoppammo verso il villaggio, e alle quattro riprendevamo la strada di Tjumen. Attraversammo il Tobol a Jalutorowsk, e qualche ora più tardi il Pyschma a Bogandinsk. Nelle città, sulla via, della gente ci aspettava, ci salutava; eravamo precorsi dalla notizia del nostro arrivo. Anche in aperta campagna eravamo talvolta riconosciuti. Ad un bivio domandammo la strada ad un giovanotto, il quale, dopo avercela indicata, mentre ci allontanavamo ci gridò:

— Da Pechino?

— Sì.

— Principe Borghese?

— Sì.

Hurrah!

E agitò il berretto. Questi saluti solitari e spontanei ci erano cari; risvegliavano in noi delle improvvise simpatie come se ci gridassero: — Siamo amici! — e ci volgevamo a rispondere con effusione e con riconoscenza.

Arrivammo a Tjumen alle otto. Vi era un Comitato a Tjumen che ci ricevè all’ingresso della città; e col Comitato v’erano dei fotografi; e con i fotografi dei corrispondenti dei giornali russi. Fummo così ricevuti, ritratti ed intervistati. Uno di quei miei colleghi mi aveva preso specialmente di mira; armato di un gran taccuino e di un lapis ben temperato, mi si era messo vicino come un’ombra. Lo ebbi con me mentre scrivevo i dispacci, e poi al telegrafo, poi durante il mio pranzo (non avevo potuto seguire Borghese ad un banchetto d’onore), quando mi coricavo; venne a bussare alla finestra, bassa sulla strada, mentre dormivo. Era un ometto magro, ostinato, impassibile. Mi diceva:

— Ditemi qualche cosa.

— Non ho niente da dirvi, mi dispiace.... Il viaggio è stato buono. Ecco.

— Ancora qualche cosa.

— Non ho altro.

— Pensateci.