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422 capitolo xix.


neate numerose assi da slitta tenute curve ad una estremità da forti corde di vimini. Chiamammo.

Subito dopo la porta del recinto si schiuse e ne uscì un uomo.

— Nikolai Petrovitch? — chiedemmo.

— Sono io. Salute!

Era un bell’uomo sui cinquantanni, dalla gran barba grigia; il suo volto aveva l’espressione mistica del contadino russo; i capelli lunghi, divisi sulla fronte, gli spiovevano fino alle spalle.

Aveva una corporatura gigantesca; vestiva la camiciola rossa del mujik, aperta sul petto; portava il capo nudo. Lo seguivano i suoi aiutanti, anche loro dall’aspetto patriarcale; dalle maniche rimboccate uscivano braccia atletiche, capaci di abbattere alberi.

— Guardate questa ruota! — disse il Principe al fabbricatore di teleghe.

Egli osservò per alcuni istanti:

— Si possono rifare i raggi. — esclamò — Il cerchione è buonissimo. Ci si fanno degl’incastri più profondi....

— Voi potete rifare i raggi?

— Sì.

— E che resistano?

— Vi faccio diventare la ruota più forte di quando era nuova.

— Ne ho bisogno subito.

— In mezza giornata è fatto.

— Sta bene.

L’automobile venne introdotta in un rustico cortile, sporco di ricci e di scheggie, ingombro di travi, slitte, carri, cerchi di ferro.

In un angolo un tarantas verniciato di fresco appoggiato su due cavalletti. La ruota fu sfilata dal perno, svitata, smontata; i raggi separati dal mozzo e dal cerchione servirono da modello per quelli nuovi. Pochi momenti dopo il cortile risuonava di colpi d’ascia. Nessun altro ordigno era adoperato fuorchè l’ascia, maneggiata con meravigliosa abilità. Essa è nelle mani del contadino russo