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200 capitolo ix.


— Non conosco il Gobi, grazie a Dio, ma vi ripeto che il cammino per Kiakhta è quanto di più orribile io abbia veduto in fatto di strade, e sono stata in Manciuria. Pensate, quattro ore intere, quattro ore, presi dal fango, senza poter liberare il tarantas affondato, con la prospettiva di continuare la strada a piedi. Vi ho già descritto questo episodio. Saremo stati a dieci verste da Urga, ed era la quarta volta che affondavamo...

— La stagione era cattiva?

— Eccellente. Come ora. Vedrete con i vostri occhi che cos’è di spaventoso quel tragitto.

— Speriamo di no, signora!

Sorridevo con condiscendenza. Il racconto di quelle terribili avventure di viaggio mi lasciava abbastanza tranquillo. La sensibilità femminile porta alle volte alla più spontanea esagerazione. Non potevo immaginare allora quanto la mia vicina di tavola avesse ragione. Non avrei mai creduto in quel momento che la strada fra Urga e Kiakhta ci avrebbe fatto rimpiangere il deserto e che poche ore dopo quel colloquio noi avremmo tremato per la salvezza della nostra macchina.


Lasciammo la Banca all’alba, con tutte le precauzioni atte a non risvegliare nessuno a quell’ora così dolce al sonno, ed avevamo veramente l’aria d’aver svaligiato la cassa forte e di fuggircene col bottino. Come tutte le Banche russe, anche quella d’Urga doveva temere qualche colpo di mano degli “espropriatori„ rivoluzionari, poichè alla notte essa era vigilata all’esterno dai cosacchi del Consolato. E quei bravi giovanotti in sentinella ci osservavano alla partenza con una evidente incertezza; pareva non sapessero se salutarci o dare l’allarme. Si decisero per il saluto. E noi filammo verso la città mongola, dalla quale si diparte la strada per Kiakhta.

Ma non fu facile trovarla. Ci mancava la linea del telegrafo ora, quel comodo filo d’Arianna che ci aveva condotti per mille e duecento chilometri, e i mongoli mattinieri che incontravamo