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334 capitolo xv.


selvagge solitudini; l’umanità era venuta a gettarci un breve grido d’incoraggiamento nel vasto silenzio della foresta.

Nel pomeriggio è scoppiato un temporale violento. Schiantavano i fulmini, e il tuono rimbombava continuo da vallata a vallata. La strada ruscellava d’acqua, e la pioggia dirotta velava ogni cosa. Presso al villaggio di Taitisk attraversammo con un battello il fiume Birussa, confluente del Tschuna da noi passato al mattino a Nischne-Udinsk, impetuoso, gonfio e torbido come un gran torrente. Il temporale s’era calmato, ma alcune ore dopo, quando scendevamo nella valle del Kan, un’altra tempesta ci sopraffece. Attraversammo il Kan, sopra un battello grande come quello della Selenga a Verkhne-Udinsk, mentre ancora si scatenava quel nuovo furibondo temporale in mezzo al livido bagliore dei lampi.

Nel Kan trovavamo il primo fiume che si getta nel Jenissei. Avevamo definitivamente lasciato il bacino dell’Angara per quello del Jenissei. Entravamo nella Siberia centrale. Kansk, sulla riva del Kan, ci si mostrava come una grande città. Era un’apparenza di grandiosità derivante da due cose: dalla bruma che rendeva vaghi ed allargava i profili delle cose, e dalla presenza sulla riva del fiume di uno stabilimento industriale. Un giovane, all’aspetto studente, che aveva preso posto con noi sul battello, e che ci aveva salutati, capì alla parola “fabbrica„ che parlavamo di quell’opificio dalle alte ciminiere, si volse e disse:

— No. Non è una fabbrica.

— E che cosa è?

— Meglio sarebbe per Kansk che non esistesse. Impoverisce il paese invece di arricchirlo. È una rovina. È la rovina della Russia.

— Che cosa è?

— Una distilleria governativa della vodka.

Eravamo bagnati come se avessimo attraversato il fiume a nuoto. Trovammo le strade del paese allagate e deserte; qualche rara iswoshchik passava diguazzando. Alloggiammo in un vecchio