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182 la montagna delle folgori


per porgere al piede i larghi gradini innumerevoli di una specie di rozza scala, cementata di sudore. Per tutto è così. Queste montagne si sfanno nelle zone basse in un fango viscido. Le comunicazioni non erano sicure che pavimentando i cammini. Intorno a Drezenca il terreno è tutto bianco di acciottolati ai quali sempre si lavora.

Salendo, entravamo in zone più selvagge e più cupe.

I faggi cedevano il posto agli alberi, neri, eretti e vigorosi. Nei crepacci biancheggiavano i primi nevai; contornavano le frange del grande mantello candido del monte; erano ammassamenti soffici di neve rimasti fra le rocce, resti di vecchie valanghe. Improvvisamente ci siamo trovati nelle nebbie. Penetravamo nella nuvolaglia delle vette.

Tutto è scomparso in una penombra opaca, fredda, grigia. Non vedevamo più il precipizio al nostro fianco, con lo sfondo luminoso della valle verde, ma lo intuivamo per un senso arcano del vuoto, per un non so quale istinto della profondità. Le pietre del sentiero erano le nostre guide. Andavamo su, su, su, in un isolamento affannoso, per lunghe ore, entro silenzi solenni.

Di tanto in tanto, al bordo della strada scoscesa, una capanna bassa di tronchi o di pietrame: un posto di collegamento. Sono corpi di guardia, stazioni di soccorso, punti di scam-