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verso la vetta del monte nero 189


Per solito l’alta montagna varia ad ogni passo, attorce e spezza il cammino in una infinità di piccole salite; e non la riconoscevamo più nello spazio senza limiti, nella distesa vertiginosa, aperta nel candore levigato, ampio, scosceso, che dall’ombra delle valli ci portava verso il cielo. Nulla indicava le distanze, lo spazio e il tempo divenivano incommensurabili, provavo l’impressione di aver cominciato a salire in un’epoca già lontana e di non potere mai arrivare alla fine. Non si allontanava forse il vertice maestoso sul quale sollevavamo ad ogni momento lo sguardo? Certo. L’estremo lembo del gran tappeto bianco si svolgeva con lentezza solenne verso altezze sempre più ardite.

Scalavamo lentamente, in silenzio. Appena qualche parola di avvertimento, dall’uno all’altro: «Tenetevi a destra! — Qui si affonda! — Su, attaccatevi a me!» — Ma nei momenti di sosta, per rallegrare gli spiriti, qualcuno pratico dei luoghi spiegava: «Questo è il punto più pericoloso. Se si cade si va a finire nel vallone di Kern, come è successo ad un alpino il mese scorso. Anche più avanti, sulla cornice, parecchi si sono perduti. Ora vi mostrerò....»

Si parla dei morti della montagna con serena indifferenza; pare che andare a finire nel vallone di Kern sia un incidente di viaggio. La vita umana costa più poco ora, e forse è