Pagina:Beccaria - Opere, Milano, 1821.djvu/125

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e delle pene 39


egli creda con ciò di far cessare il tormento. Ogni differenza tra essi sparisce per quel mezzo medesimo che si pretende impiegato per ritrovarla.

Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati, e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale, che i Romani, barbari anch’essi per più di un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata virtù. Di due uomini ugualmente innocenti, o ugualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco ed il timido condannato in virtù di questo esatto raziocinio: “Io giudice doveva trovarvi rei di un tal delitto, tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi hai ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione strappata fra i tormenti non avrebbe alcuna forza; ma io vi tormenterò di nuovo, se non confermerete ciò che avete confessato.„

L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e detta sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema: “Data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre di un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessar reo di un dato delitto.„

L’esame di un reo è fatto per conoscere la verità; ma se questa verità difficilmente scuopresi all’aria, al gesto, alla fisonomia di un