Pagina:Berchet, Giovanni – Poesie, 1911 – BEIC 1754029.djvu/321

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Soave amico, a pianger non ne invogli
300 lugubre verso. Eppur come d’ Eugenia
scordare i casi? Oh di men tristi tempi
e di sorte miglior degna fanciulla!
Speme di care nozze avea la bella
anima sua, vinta d’immenso amore,
305 per due anni allegrata. E giá di sposo
titol donando all’amator, vicine
le sospirate ornai dolci vigilie
Eugenia vagheggiava ed i venturi
figli. Misera! Avaro, per piú ricca
310 una dote mercar, lasciolla il crudo.
Ella non pianse; a nullo uomo vivente
narrò sue pene, ma nel cor la piaga
ebbe alimento. La ragion d’ Eugenia
era inferma per sempre. Ogni ornamento
315 le increbbe; piú dell’odorosa mirra
non saturò i capegli. Allor che in terra
né voce una s’udiva, i piú romiti
campi cercava a passi incerti e lenti
sotto i silenzi della luna. A lei
320 patetico cantando inno amoroso,
protendeva le palme. E quel notturno
astro fu visto impietosirsi, e il raggio
piú languido mandar sull’infelice.
Noi l’udivam da lungi. E d’appressarsi
325 chi ardiva mai, s’ella i vestigi istessi
della povera madre anco evitava?
Un di vicina la sofferse, il giorno
che fissando su lei pregno di morte
estatico lo sguardo: — E tu pur — disse, —
330 madre, mia madre, dunque m’abbandoni? —
Quivi Eugenia moriva. In grembo a Dio
trova pace una volta all’egro spirto,
vergine sconsolata. E se memoria
resterá de’ miei carmi, il nome tuo
335 fia lagrimato, e dove le stanche ossa
sotto il mirto riposano, irrorati
cresceranno di pio latte i giacinti( 9 ).
Quale al tenero cor d’ itala donna