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LA TESTA DELLA VIPERA 153

Erano a pochi passi, quando udirono suonare in quella quieta aria della notte il supremo grido disperato di Matilde.

Alberto si precipitò dal biroccino. Cesare ne seguì l’esempio, abbandonando a sè il cavallo; corsero ambedue alla casa. Con mano convulsa il marito di Matilde aprì l’uscio di cui aveva seco la chiave, e su per le scale, in due salti fu alla soglia della camera da letto. Entrando vide in un batter d’occhio lo suocero disteso sul sofà come morto, e un uomo che trascinava il corpo inerte di Matilde. Colla rapidità della folgore, disarmato com’era, ma col coraggio e le forze raddoppiate dal furore, egli si slanciò su quell’uomo, lo afferrò al collo, poco mancò lo strozzasse, e lo avrebbe strozzato, se le braccia di Emilio abbandonando Matilde, questa non fosse caduta a terra. Ma essa aveva riconosciuto il marito, e un grido di gioja le uscì in quella dalle labbra col nome del suo salvatore.

— Alberto!

Questi lasciò il collo di Emilio, il quale invano tentava con mani convulse liberarsi da quella stretta; poi, dato un potente pugno sul capo al creduto assassino, Alberto si affrettò a sollevare la moglie.

Emilio, già vacillante per la soffocazione, da quel colpo sulle tempie fu mandato a rotolare tre passi in là sul pavimento.

Matilde, tornata in sè, gettate le braccia al collo del marito, si sentiva a rinascere, piangeva,