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LA TESTA DELLA VIPERA 155

chiazze di cupo rossore che stavano sulle sue guancie, la carnagione giallognola era diventata verde.

— Emilio! ripetè Alberto attonito, volgendosi verso di lui. Possibile!

Il tristo levò con risoluzione la testa, e rispose impudentemente:

— Sì, sono io... Tu mi hai rapito la mia felicità, e io ho voluto contaminare la tua.

— Ah! sciagurato! gridò Alberto minaccioso, facendo un passo verso di lui.

Matilde lo trattenne al suo amplesso.

— Lascialo nella sua infamia! gli disse. Dio, che t’ha condotto a tempo a salvarmi, lo punirà meglio di quanto potresti far tu.

— Bene, sì! disse ghignando. Ti aspetto al giudizio di Dio, Alberto Nori. Io ti ho fatto il più fiero oltraggio che possa un uomo: tu mi hai percosso... qui sulla fronte... Per questo non c’è perdono, non c’è oblio... Tu mi devi odiare, io ti odio... Ti odio fin da quando eravamo in collegio... Già d’allora Dio ha punito la tua tracotanza per la mia mano... che ti ha spaccata la fronte con una pietra.

— Ah! fosti tu!

— Il mio odio, covato nel più profondo dell’anima, s’è accresciuto... da far spavento a me stesso.

Alberto riuscì a liberarsi da Matilde, fu sopra al suo insultatore, e colla robustezza della sua mano, cacciatagli sulla spalla, lo fece curvare a terra.