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LA TESTA DELLA VIPERA 169

rosolî e ogni fatta di bibite, e ripetere e trattenerlo con quell’insistenza che dai campagnuoli è creduto debito di cortesia, così che quando Alberto potè liberarsene e lasciare la canonica, guardato l’orologio, vide che le sei e mezza erano passate da cinque minuti.

Corse al luogo del convegno e respirò vedendovi Cesare solo. Emilio non s’era ancora veduto.

— Or bene, va tosto da lui, disse Alberto affrettatamente al cognato, e digli che della sua dichiarazione io non ne voglio assolutamente sapere. Preferisco andare a battermi in Isvizzera. E riportagli la sua rivoltella, che non me ne voglio servire. Ne ho una anch’io di sei colpi, e preferisco d’usare la mia. Va, e fa presto; ti aspetto sempre qui.

Cesare partì di buon passo e Alberto si diede a passeggiare su e giù dal pilone al ponte, trovando eterni i minuti che passavano. E ce ne passarono in verità molti più di quello che Alberto si aspettasse, tanto che l’orologio, dicendogli trascorsa omai mezz’ora, smarrita la pazienza, egli stava per abbandonare il posto e andare a vedere che cosa fosse successo, quando vide Cesare che tornava correndo: ma egli era solo.

— E così? gli gridò Alberto appena Cesare fu a un punto dove gli arrivava la voce. Che cosa risponde?

Ma Cesare, affannato, con segni vibrati che supplivano alle parole, cui per lo strafiato non