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LA TESTA DELLA VIPERA 57

all’uscio, ma le sue mani non avevano più forza: ricascava, accasciata, sempre più smarrita d’animo.

Sopravvenne la notte; l’oscurità si fece tormentosamente paurosa per quella disgraziata che nelle tenebre credeva vedere, udire terribili fantasmi e voci, e sentiva l’anima sempre più gravata da un’indicibile oppressura. La realtà, anche la peggiore, parevale da preferirsi a quello stato d’angoscia nell’oscurità e nel silenzio che la circondavano. Mancavale il respiro, la testa le tenzonava, dicevasi con ispavento: «Io sto per morire qua sola come un cane». A un tratto udì lo scricchiolìo della chiave nella serratura e il rumore dei battenti dell’uscio che venivano spalancati: non vide nessuno, nessuno le parlò.

Volle alzarsi di scatto e correre alla porta, ma le forze le mancarono. Sorse a stento, camminò trascinandosi: la pinguedine le pesava ora come una cappa di piombo. Andò a tastoni fuor della camera; entrò a tastoni nella sua; colle mani tese innanzi si diresse verso il cassettone, ci arrivò, lo toccò tremando; il cassetto era aperto, e le mani frementi affondatevi trovarono il vuoto. La disgraziata non ebbe nemmeno più la forza di mandare un grido; non fu che un gemito ad uscire dalle sue labbra. Un tonfo sordo per terra annunziò che la infelice era caduta lunga e distesa. Due giorni dopo sotterravano anche lei, morta d’un colpo apoplettico.

Emilio Lograve, diventato ricco ad un tratto,