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270 capo xiii.


A Paolo V non potevano cancellarsi dalla mente le parole dette dal doge al suo nunzio nel licenziarlo: «Nissun uomo di sano intelletto può approvare il pontefice, venuto ad una risoluzione così ingiusta e così precipitata senza prima sapere come si governi il mondo. Certo non poteva far cosa più a proposito per chiamare a sindacato la corte di Roma. Pensi se la Repubblica si appartasse da lei, pensi qual danno!» Le ultime parole parevano acchiudere un’oscura minaccia, e rabbrividiva al solo pensiero che potesse effettuarsi.

Fra queste incertitudini cominciò a tastare l’ambasciatore di Francia conte di Alincourt e dire, non essere alieno dalla concordia coi Veneziani sempre che gli dessero qualche soddisfazione. Enrico IV re di Francia fin dal principio della controversia aveva dimostrato un animo benevolo e imparziale, e adoperato ogni mezzo acciocchè il papa non precipitasse in qualche disacconcio. E quantunque disgustato di lui che con mal garbo e soverchia presonzione aveva rigettato il suo interponimento, mandò a’ suoi ambasciatori Dufresne Canaye a Venezia, Alincourt a Roma e ai cardinali francesi che non omettessero pratica alcuna, nè si stancassero per ripulse onde trovare qualche filo alla conciliazione. Ma l’imbroglio era di sapere come indurre a dar soddisfazione un governo il quale non che darne pretendeva quasi di riceverne. Nulla ostante l’Alincourt accordatosi coi cardinali francesi fece proporre al Senato per mezzo di Dufresne i seguenti preliminari: 1.° che il papa fosse pregato dal re a nome della Repubblica, acciò levasse le censure, e intanto l’in-