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v. - a niccolò acciaiuoli 125



V.

A Niccolò Acciaiuoli.
(1341)


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[Niccola, se a’ miseri alcuna fede si dée, io vi giuro per la dolente anima mia che non altrimenti alla cartaginese Didone la partita del troiano Enea fu grave, che fosse a me la vostra: e non sanza cagione, avvegna che occulta vi fosse. Né similemente con tanto disidero la ritornata di Ulisse fu da Penelopè aspettata quanto la vostra da me; la quale nuovamente sentendo ora essere stata, non altrimenti nelle tenebre de’ miei affanni mi sono rallegrato, che facessono nel limbo i santi padri, udita da san Giovanni la venuta di Cristo, per cui la lungamente aspettata salute in brieve speravano sanza fallo. Laonde io non credo prima vedervi, se dato è ch’io debbia tanto viverci ch’io vi vegga, che piú che altro lieto in me potrò le parole d’Isaia rivolgere, quando disse al popolo che per l’ombra della morte andava: «È nata luce». E per ciò io, con quello affetto che per me si puote esprimere piú fervente, con voce piena di letizia vi dico che voi siate il ben tornato. La santá del corpo, con la quale credo che quella della mente congiunta sia, ho con lieto animo intesa; ed oltre a ciò, la seconda fortuna alla vostra vertú debita m’è manifesta, la quale, se l’immaginare non m’inganna, piccoli segni d’amore ancora vi mostra a rispetto ch’ella fará per innanzi: ed essa priego Iddio che cosí con voi come con Quinto Metello felicissimo romano fece, l’etterni. Oh! quanto m’è la vostra ben avventurata tornata cara, non per me tanto, quanto per ciò ch’io allora vedrò le inique ed adulatrici lingue, dalle quali vi ricordo e priego che vi guardiate, confuse tacere; allora gli animi invidiosi in fuoco pestilenziosissimo consumarsi ed i superbi nella vostra presenza bassare i colli, li quali con oppinioni perverse, con operazioni malvage e con sottrattose parole a’ vostri beni ed a voi si sono