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Pagina:Boccaccio - Decameron II.djvu/284

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278 giornata decima

di chiunque ella stata fosse; qui pecca la fortuna, che a Gisippo mio amico l’ha conceduta piú tosto che ad uno altro. E se ella dée essere amata, che dée, e meritamente, per la sua bellezza, piú dée esser contento Gisippo, risappiendolo, che io l’ami io che uno altro. — E da questo ragionamento, faccendo beffe di se medesimo, tornando in sul contrario, e di questo in quello e di quello in questo, non solamente quel giorno e la notte seguente consumò, ma piú altri, intanto che, il cibo ed il sonno perdutone, per debolezza fu costretto a giacere. Gisippo, il qual piú dí l’avea veduto di pensier pieno ed ora il vedeva infermo, se ne doleva forte, e con ogni arte e sollecitudine, mai da lui non partendosi, s’ingegnava di confortarlo, spesso e con istanza domandandolo della cagione de’ suoi pensieri e della ’nfermitá. Ma avendogli piú volte Tito dato favole per risposta e Gisippo avendole conosciute, sentendosi pur Tito costrignere, con pianti e con sospiri gli rispose in cotal guisa: — Gisippo, se agl’iddii fosse piaciuto, a me era assai piú a grado la morte che il piú vivere, pensando che la fortuna m’abbi condotto in parte che della mia vertú mi sia convenuto far pruova, e quella con grandissima vergogna di me truovi vinta: ma certo io n’aspetto tosto quel merito che mi si conviene, cioè la morte, la qual mi fia piú cara che il vivere con rimembranza della mia viltá; la quale, per ciò che a te né posso né debbo alcuna cosa celare, non senza gran rossor ti scoprirò. — E cominciatosi da capo, la cagion de’ suoi pensieri e la battaglia di quegli, ed ultimamente di quali fosse la vittoria, e sé per l’amor di Sofronia perire gli discoperse, affermando che, conoscendo egli quanto questo gli si sconvenisse, per penitenza n’avea preso il voler morire, di che tosto credeva venire a capo. Gisippo, udendo questo ed il suo pianto veggendo, alquanto prima sopra sé stette, sí come quegli che del piacere della bella giovane, avvegna che piú temperatamente, era preso: ma senza indugio diliberò la vita dell’amico piú che Sofronia dovergli esser cara, e cosí, dalle lagrime di lui a lagrimare invitato, gli rispose piagnendo: — Tito, se tu non fossi di conforto bisognoso come tu se’, io di te a te medesimo mi dorrei, sí come d’uomo il quale hai la nostra amicizia violata,