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Pagina:Boccaccio - Decameron II.djvu/344

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nobili e virtuosi» i quali attesero a correggere il Dec. «con gran diligenza e non minor giudizio» purgandolo «da tanti e tanto gravi errori»; un po’ di freddo mise nel fervore di questi elogi il Salviati quando rilevò, quel testo «essere in molti luoghi stato corretto di fantasia, avvengaché bene le piú volte, e per acconcio modo, e con ingegno si vegga fatto»1. Secondo il Borghini i dotti giovani non conobbero L, o lo conobbero tardi ed a stampa inoltrata; essi si sarebbero valsi invece di un codice giá appartenuto a Giannozzo Manetti († 1459) e specialmente di un altro di casa Cavalcanti tenuto sempre «in grande stima e reverenzia», restati ambedue inaccessibili ai Deputati del 1573 e che nemmeno noi siamo in grado d’identificare2. Se non che un raffronto tra la lezione della Giuntina e quella di L (raffronto reso facile dal fatto che l’edizione lucchese del 1761 registra in calce con non interrotta diligenza le varianti di G) mostra che il ms. non restò affatto ignoto a chi curò la «ventisettana», e ciò sino dal bel principio della stampa; questo punto fu assodato giá dal Fanfani con argomentazione alquanto prolissa3 ma che un accurato accertamento mi dá per fondata. Oltre ad L, è agevole rilevare che quegli editori ebbero per le mani un ms. molto corretto ed autorevole, ch’era strettamente affine a B piú volte ricordato; l’affinitá è comprovata dal fatto che su circa novecento passi da

  1. Cfr. Annotazioni cit., p. 15; Salviati, Avvertenza premessa alla sua edizione. I nomi degli editori indicò il Manni, op. cit., pp. 642-3, sul fondamento di una nota che fu piú tardi stampata dal Baldelli (cfr. qui oltre, p. 341, n.); il Buonamici (Lettera cit., p. 327) errò restringendoli a tre, e forse trasse in errore il Foscolo, che (Discorso cit., p. 22) parla di «parecchi gentiluomini» ma effettivamente ne ricorda tre soli, e tra essi il Berni, la cui opera si limitò appena ad eseguire il riscontro col testo Cavalcanti, com’è chiaramente detto dai Deputati. Di Stiatta Bagnesi, uno dei correttori, «fu ufizio particulare scrivere quel che era fermo da tutti» (Annotazioni, p. 182).
  2. Cfr. Annotazioni, pp. 15-6. Sui rapporti con L ecco le precise parole del Borghini: «Perché noi crediamo, et a molti segni ce lo pare quasi potere affermare (ché per testimonio di alcuno non ce ne siamo ancora potuti interamente chiarire) che e’ non ebber questo nostro buono anzi ottimo libro, o lo vider molto tardi, et in tempo che l’opera era poco meno che stampata» (si badi che l’ediz. principe legge erroneamente «non crediamo», lezione che passò nelle successive). Il medesimo asserto fu ripetuto dal Buonamici (p. 327), dal Manni (p. 643) e nella prefaz. alla stampa lucchese del 1761 (p. iv), dove si aggiunge che nel tempo in cui fu fatta l’edizione Giuntina L era smarrito: il che non è vero, visto che lo smarrimento avvenne solo alcuni anni piú tardi (Hecker, Der Deo Gratias-Druck cit., p. 218, n. 1).
  3. Ragionamento premesso all’edizione del 1857, pp. xxiii-vi.