Pagina:Boccaccio - Decameron di Giovanni Boccaccio corretto ed illustrato con note. Tomo 5, 1828.djvu/177

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tura amor della sua corte avendo sbanditi qui li mandasse, e in esilio, come a me pare essere stato da lui mandato; o posseggonla pur solamente le bestie, le quali io ho udite tutta notte dintorno mugghiare? A cui elli sorridendo rispose: assai bene conosco che ancora il raggio della vera luce non è pervenuto al tuo intelletto, e che tu quella cosa la quale è infima miseria, come molti stolti fanno, estimi somma felicità, credendo che nel vostro concupiscibile e carnale amore sia alcuna parte di bene; e perciò apri l’orecchie a quello che io ora ti dirò.

Questa misera valle è quella corte che tu chiami d’amore, e quelle bestie che udite hai, e odi mugghiare, sono i miseri de’ quali tu se’ uno, dal fallace amore inretiti; le boci de’ quali, in quanto di così fatto amore favellano, niuno altro suono hanno nell’orecchie de’ discreti e ben disposti uomini, che quello che mostra che venga alle tue; e però dianzi la chiamai laberinto, perchè così in essa gli uomini, come in quello già faceano, senza saper mai riuscire s’avviluppano. Maravigliomi di te che ne domandi, con ciò sia cosa ch’io sappia, che tu non una volta ma molte già dimorato ci sii, quantunque forse non con quella gravezza che ora ci dimori. Io quasi di mia colpa compunto, riconoscendo la verità tocca da lui, quasi in me ritornato, risposi: veramente ci son’io altre volte assai stato, ma con più lieta fortuna, secondo il parere delle corporali menti; e di quinci più per l’altrui grazia, che per lo mio senno, in diversi modi or mi ricordo essere uscito, ma sì m’avea il dolor sostenuto e la paura di me tratto, che così, come mai stato non ci fossi, d’esserci stato mi ricordava: e assai bene ora conosco, senza più