Pagina:Boccaccio - Fiammetta di Giovanni Boccaccio corretta sui testi a penna, 1829.djvu/126

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e liberi sono, e sono tante e tali le cagioni per le quali ciò avviene, che appena alcuna cosa addimandata negare vi si puote. In questi cosí fatti luoghi confesso io, per non turbare le compagne, d’avere avuto viso coperto di falsa allegrezza, senza avere ritratto l’animo da’ suoi mali; la qual cosa quanto sia malagevole a fare, chi l’ha provato ne può testimonianza donare. E come potrei io nell’animo essere stata lieta ricordandomi già e meco e senza me avere in simili diletti veduto il mio Panfilo, il quale io sentiva da me oltremodo essere lontano, e oltre a ciò senza speranza di rivederlo? Se a me non fosse stata altra noia che la sollecitudine dell’animo, la quale me continuamente teneva sospesa a molte cose, sí m’era ella grandissima, che è egli a pensare che il fervente disio di rivederlo avesse sí di me tolta la vera conoscenza, che, certamente sappiendo lui in quelle parti non essere, pur possibile che vi fosse argomentassi, e come se ciò fosse senza alcuna contraddizione vero, procedea a riguardare se io il vedessi? Egli non vi rimaneva alcuna barca, delle quali, quale in una parte volante e quale in un’altra, era cosí il seno di quel mare ripieno come il cielo di stelle, qualora egli appare piú limpido e sereno, che io, prima a quella con gli occhi che con la persona, riguardando, non pervenissi. Io non sentiva alcuno suono di qualunque strumento, quantunque io sapessi lui se non in uno essere ammaestrato, che con gli orecchi levati non cercassi di sapere chi fosse il sonatore, sempre imaginando quello essere possibile d’essere colui il quale io cercava. Niuno lito, niuno scoglio, niuna grotta da me non cercata vi rimaneva, nè ancora alcuna brigata. Certo