Pagina:Boccaccio - Filocolo (Laterza, 1938).djvu/140

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136 il filocolo

E conoscendo quasi il volere degl’iddii, e la ingiusta sentenza che dar dovevano, temendo, e mossi a pietá, s’ingegnarono d’aiutar Biancofiore, e dissero: «Altissimo signore, niuna persona può da noi essere giudicata, se quella, cui giudicar dobbiamo, in prima a’ nostri orecchi non confessa con la propria bocca il fallo, per lo quale al nostro giudicio è tratta. Noi non abbiamo ancora udito da Biancofiore alcuna cosa, o s’è vero o non vero quello di che voi volete che a morte la sentenziamo. E voi volendo fare quest’opera secondo il giudiciale ordine, come dite, e non di fatto, conviene che ce la facciate udire sé aver commesso questo fallo, però che noi dubitiamo che, senza fare il debito modo, la sentenza non torni sopra i nostri capi». Assai si turbò il re di queste parole, e temendo forte che Biancofiore ascoltata non fosse, e per quello il suo inganno si manifestasse, o che per indugiare non pervenisse agli orecchi a Florio, rispose: «Questo fallo fatto da costei non ha bisogno di confessione alcuna, perciò che è sí manifesto, che, se negare lo volesse, non potrebbe, e però sopra l’anima mia e de’ miei figliuoli la giudicate incontanente». Comandarono adunque i giudici che Biancofiore fosse di presente tratta di prigione, e menata davanti da loro, veggendo essi la volontà del re essere disposta pure a volere che senza indugio alcuno giudicata fosse.

Adunque Biancofiore, tratta fuori di prigione quella mattina, e la chiara luce che accompagnata l’aveva subito partita da lei, ed essa vestita di neri drappi, i quali la reina mandati le aveva, acciò che come nobile femina andasse a morire, venne tacitamente davanti a’ giudici, quasi perdendo ogni speranza che ricevuta avea dalla santa dea il preterito giorno; e quivi fermata, uno de’ giudici levato in piè con empia voce cosí disse: «Sia manifesto a tutti che la presente iniqua giovane Biancofiore per suo inganno e tradimento volle, il giorno passato, il nostro e suo signor re Felice avvelenare con un pavone, sotto spezie d’onorarlo; e però, acciò che nullo uomo o altra femina a sì fatto fallo mai s’ausi, noi condanniamo lei, ch’ella sia arsa e fatta divenire cenere trita,