Pagina:Boccaccio - Filocolo di Giovanni Boccaccio corretto sui testi a penna. Tomo 2, 1829.djvu/270

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sue fiamme, che ’l fece in sé ritornare, egli pure avria la seconda volta arso il cielo, e io di ciò m’avria riso, se fulminato fosse caduto come il figliuolo. Io non so se fu mai savio come si dice, ma se così fu, non so dove egli la sua scienza mandasse, che egli sempre con ferma fede credette sé essere singulare signore dell’anima mia. Esso, cercatore di tutto il mondo, portava seco d’ogni parte que’ doni ch’egli credea che mi dovessero più piacere, e con quelli s’ingegnava di servare l’amore mio verso di lui, e per quelli sovente tentava di volere quel diletto il quale egli avuto di Climene, più oltre non la richiese. Ma io, più provida delle cose che deono avvenire di lui, essendo egli ancora del tutto dal mio cuore lontano, ben che altro disiderio che di lui avere non mostrassi, con belle ragioni e con impromesse prolungando le dimandate grazie, il tirai lungo tempo, quelle altrui concedendo perché più m’era a grado. Egli forse di se medesimo ingannato, mi si credea per la sua bellezza più ch’altri piacere: ma non solamente sotto quella si ristringono l’amorose leggi. Questo gli recitò Venere, conscia, sì come io avea voluto, di lei fidandomi, de’ miei segreti, e disegnolli il luogo degli amorosi furti, il quale egli della somma altezza vide: per che quasi per grieve dolore turbato più giorni luce non porse. Ma la mancante natura supplicando a Giove, si dice che nell’usato uficio il fece tornare: ma mai da quell’ora in avanti con diritto occhio non mi guardò, ma passando davanti a me traverso, quasi sdegnoso mi mira; di che io poco mi curo. Ora poi che così colui che ha voce di tutte le cose vedere fu da me gabbato per senno, che si faria degli altri iddii che