Pagina:Boccaccio - Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio nuovamente corretto sopra un testo a penna. Tomo II, 1831.djvu/271

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SOPRA DANTE 267

favola di Pronapide dell’origine di queste fate, e la sposizlon di quella: ma Tullio il quale le chiama Parche, in libro de natura Deorum scrive queste essere state figliuole d’Erebo e della Notte: ma io m’accosto più con l’opinione di Teodonzio, il quale vuole, queste essere create insieme con la natura naturata, il che par più conforme alla verità. Queste medesime nel preallegato libro chiamò Tullio Fato, quel medesimo dicendo essere stato figliuolo d’Erebo e della Notte. Seneca in una epistola a Lucillo le chiama fate, dicendo nondimeno quello che scrive essere stato detto d’un filosofo chiamato Cleante, il quale dice i fati o le fate, menano chi vuole andare, e chi non vuole andare tirano: ma questa è malvagia sentenza, e da non credere; perciocchè se così fosse, noi saremmo senza il libero arbitrio, il che è falso. E questa medesima sentenza par molto più apertamente sentire Seneca Tragedo, in quella tragedia la quale è intitolata Edipo, dove dice,

Fatis agimur, cedite Fatis:
Non sollicitae possunt curae
Mutare rati stamina fusi;
Quidquid patimur mortale genus,
Quidquid facimus venit ex alto:
Servatque suae decreta colus
Lachesis, dura revoluta manu.
Omnia certo tramite sadunt.
Primusque dies dedit extremum;
Non illa Deo vertisse licet,
Quae nexa suis currunt causis.
It cuique ratus prece non ulla