Pagina:Boccaccio - Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio nuovamente corretto sopra un testo a penna. Tomo II, 1831.djvu/275

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SOPRA DANTE 271

stro intelletto; e chiamiamo notte quella cosa che è chiarissimo dì: e così queste fate da noi non intese diciamo essere state figliuole della Notte. Sono oltre a’ proprii nomi chiamate queste fate da Tullio Parche; e credo le chiami così per contrario, perciocchè esse non perdonano ad alcuno. Fato o fate sono nominate da for faris, il quale sta per parlare; e questo è, perciocchè pare ciò che avviene essere stato prima parlato, prevedendo da Dio: il che pare che santo Agostino senta nel libro de Civitate Dei: ma come altra volta è detto, pare che egli abbia in orrore il vocabolo, ammonendone che se alcuno la volontà di Dio o la podestà chiami fato, che esso tenga la sentenza, ma rifreni la lingua in non nominarlo così. E questo al presente basti aver detto delle fate: seguita adunque continuando le parole dell’angelo l’autore,

Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
Ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo;

perchè questo avvenisse, è mostralo di sopra, dove di Teseo si ragionò. Poi, che queste parole ebbe dette, si rivolse, l’angelo, per la strada lorda, del palude di Stige, E non fe’ motto a noi; perciocchè l’uno era dannato, e l’altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che meritasse o saluto o altro dall’angelo: e se forse dicesse alcuno: esso parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a costoro, che erano assai men colpevoli? Puossi così rispondere, esso aver parlato a’ diavoli in loro confusione e danno; il che costoro non meritavano, perciocchè