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tant’oltre da chiedere al Re che dimettesse il Cavour. Faceva d’uopo aver coraggio e fermezza non comune; faceva d’uopo aver anche quell’audacia mediante la quale ci si spinge a tentare imprese che riescono solo agli uomini straordinari. Il conte di Cavour ebbe tutto; ei non si lasciò sfuggire il momento propizio «se non arrivo ai confini del Napoletano prima che le schiere dei volontarî ci arrivino, diceva egli ai diplomatici, il Governo è perduto».

«L’undici settembre, riprende a narrare il Bonghi, quattro giorni dopo l’entrata di Garibaldi in Napoli, il conte di Cavour consigliò il Re che ricevesse una deputazione che veniva dalle Marche e dall’Umbria ad esporre a quali mali quelle popolazioni soggiacessero per effetto dell’ira disordinata dei mercenarî raccogliticci dell’esercito pontificio; e pubblicasse un proclama in cui annunciando d’accettarne la tutela, comandava al suo esercito di valicare i confini all’oggetto — di restaurare l’ordine civile, nelle desolate città, e di dare ai popoli la libertà di esprimere i propri voti — ».

L’audacia era grande, e la Francia mostrò di riprovarla ritirando da Torino il proprio ambasciatore; solo l’Inghilterra acconsentì, le altre potenze freddamente amiche ebbero più sbalordimento che ira. Come i fatti rispondessero ai desiderî non è necessario il dire; la battaglia di Castelfidardo e la presa d’Ancona, aumentarono l’ardore e la riputazione dell’esercito, e restaurarono il credito del governo. Indi a poco il Re alla testa del vittorioso esercito, s’incontrava con Garibaldi sulle rive del Volturno, e la dittatura cessava, cedeano Capua e Gaeta, e le provincie meridionali, erano definitivamente congiunte al Regno d’Italia. Negli ultimi tempi di sua vita la mente del grand’uomo di Stato era tutta rivolta ad affrettare il compimento dei destini d’Italia, colla liberazione di Roma e Venezia. Era suo fermo convincimento che l’amministrazione e le finanze del nuovo regno non possano perfettamente ordinarsi fintantochè il problema politico non sia risolto. E forse, se il grand’uomo di Stato non fosse per disgrazia d’Italia mancato a’ vivi, a quest’ora