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VIII discorso proemiale

st’altra fonte di miseria per lui1 dovess’essergli fornita la materia essenziale e quasi direi la midolla di quei canti stupendi e di quelle prose artistiche, che l’avrebbero reso immortale.

La gloria in fatti di questo genio sovrano, affermatasi ben presto saldamente non pur tra la gente nostra, ma anche tra le più cólte nazioni straniere, e venuta crescendo di giorno in giorno, è nelle maggiori opere da lui ultimamente approvate; e in modo precipuo nelle liriche ond’egli con accenti che ci toccano il cuore e con profonde meditazioni assorbite nel processo creativo dell’arte, interpretò ed espresse la doglia sua propria e quella del mondo. Pure, non estranei del tutto a questa gloria furono i primi e pazienti studi sugli autori delle classiche letterature, e l’appropriamento per essi della cultura e dello spirito greco-romano;2 come non punto estranei furono i pensieri, le osservazioni e le deduzioni intorno alla vita e al destino degli uomini, che con logica diritta e spietata, se pure talvolta con apparenza di paradossi, egli affidò alle carte, o di cui nutrì e a un tempo afflisse il suo spirito travagliato.

Queste meditazioni, ch’eran la sua tortura, costituivano ormai d’altra parte la ragione della sua vita spirituale; ed anche gli eran motivo di orgoglio, procurandogli una specie di acre compiacimento, pel quale ei non solo si sentiva nella sua solitudine superiore agli altri che da lui dissentivano, ma poteva gridare in faccia al destino crudele la sua maledizione e la sua ribellione. Così, vivendo egli appassionatamente la vita del suo pensiero, partecipando co’ suoi propri dolori ai dolori di tutti gli uomini, anzi di tutte le creature viventi, mentre più gli tumultuavano nel cuore gli affetti, si sentì irresistibilmente spinto a sfogarli col canto; il quale, data la spontaneità dell’ispirazione, dati gli studi già fatti, e dato il genio artistico possente, non poteva non



  1. Vedasi quello ch’egli scriveva al Giordani l’8 agosto 1817: «Mi fa infelice primieramenie l’assenza della salute... L’altra cosa che mi fa infelice è il pensiero... A me il pensiero ha dato per lunghissimo tempo e dà tali martirii, per questo solo che m’ha avuto sempre e m’ha intieramente in balia..., che m’ha pregiudicato evidentemente, e m’ucciderà, se io prima non muterò condizione» (Epist., 1, 33; 5ª. rist.).
  2. Può vedersi, su questo proposito, il mio Studio sul L. filologo (Napoli, A. Morano, 1891), e specialmente le conclusioni a cui io venni allora circa la qualità, valore ed effetti degli studi filologico-umanistici del L.; conclusioni che, non ostante i difetti di quel lavoro giovanile e l’incremento avuto in séguito dagli studi leopardiani, specie in virtù dei documenti forniti dalle carte napolitane, possono sostanzialmente essere accettate anche ora.