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Pagina:Canti (Leopardi - Donati).djvu/130

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120 i. canti

il debole, cultor de’ ricchi e servo
il digiuno mendico, in ogni forma
di comun reggimento, o presso o lungi
sien l’eclittica o i poli, eternamente
95sará, se al gener nostro il proprio albergo
e la face del dí non vengon meno.

     Queste lievi reliquie e questi segni
delle passate etá, forza è che impressi
porti quella che sorge etá dell’oro:
100perché mille discordi e repugnanti
l’umana compagnia princípi e parti
ha per natura; e por quegli odii in pace
non valser gl’intelletti e le possanze
degli uomini giammai, dal dí che nacque
105l’inclita schiatta, e non varrá, quantunque
saggio sia né possente, al secol nostro
patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
piú gravi, intera, e non veduta innanzi,
fia la mortal felicitá. Piú molli
110di giorno in giorno diverran le vesti
o di lana o di seta. I rozzi panni
lasciando a prova agricoltori e fabbri,
chiuderanno in coton la scabra pelle,
e di castoro copriran le schiene.
115Meglio fatti al bisogno, o piú leggiadri
certamente a veder, tappeti e coltri,
seggiole, canapé, sgabelli e mense,
letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
di lor menstrua beltá gli appartamenti;
120e nòve forme di paiuoli, e nòve
pentole ammirerá l’arsa cucina.
Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
da Londra a Liverpool, rapido tanto
sará, quant’altri immaginar non osa,
125il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie