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prefazione XXXV

stanco e senza più speranza di rivederti, volgeva come l’estremo addio!

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra: a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura1.

E anche qui, interpretando insieme il dolore del poeta zacintio e di quanti italiani rammentano l’errante ed affannosa sua vita, ripetevo col Sole:

                  Nè di te mi prese
Men fervida vaghezza, Isola d’oro,
Fior del Levante. S’io mertassi ancora
La triste gioia d’esular dal mio
Fosco Appennino e mendicar straniera
Libera tomba, a te, bella Zacinto,
L’ossa darei. Questa speranza invano
Sorrise alla fremente anima d’Ugo
Che dalle nebbie di Britannia antica
Ai tuoi fiori anelava e ai tuoi vigneti,
Difensor delle tombe egli una tomba
Nel suol non ebbe ove sorti la culla,
Nè sulla terra del suo lungo amore.2


Nicola Sole ebbe da natura ingegno fervidissimo e mirabilmente atto a reiterare in

  1. Son. cit.
  2. Epist. cit.