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la fiammolina dava un balzo e si allontanava con bizzarro movimento di altalena. Carbonella aveva dimenticato la stanchezza, la fame che le mordeva lo stomaco, e inseguiva, inseguiva la fiammolina. Le era balenato alla mente che potesse essere la fortuna.
— Fiammolina, fiammolina azzurra! Se sei la Fortuna, lasciati afferrare!
Ah! Non era la fortuna, giacché continuava ad errare, con quel bizzarro movimento d’altalena, e non si lasciava raggiungere.
Tutt’a un tratto, la vide fermarsi e sparire, e si accòrse di essere arrivata davanti all’uscio di una povera casetta di campagna.
Si fece animo e picchiò. Non rispose nessuno. Attese un po’ e tornò a picchiare. Non rispose nessuno.
— Fiammolina, fiammolina azzurra, mi hai dunque ingannata?
E tornò a picchiare per la terza volta. Si udì una voce rauca, di persona ingrugnata:
— Chi picchia? Chi cercate?
— Sono io, sono Carbonella; chiedo ricovero per questa notte.
— Carbonella? Non sono fornaia; avete sbagliato uscio.
— Datemi almeno una fetta di pane: muoio dalla fame!
Dalle fessure dell’uscio Carbonella si accòrse che là dentro avevano acceso un lume; e dal rumore degli zoccoli e dal brontolio della voce rauca, capì che qualcuno veniva ad aprirle.
L’uscio scricchiolò e apparve su la soglia una vecchia curva, grinzosa, coi bianchi capelli arruffati, e gli occhi insonnoliti.
— Chi sei? È questa l’ora di rompere il sonno alle persone?