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timi dieci anni, durante i quali gli si era irresistibilmente sviluppata la passione della poesia non tanto come arte della parola, quanto come nobilissimo elemento della vita reale.

La serata era calma. Salivano da ogni parte lievi continui rumori simili al lento respiro di persona addormentata. Al fioco lume della luna nuova, la pianura, i monti lontani apparivano velati da una luce grigia, che ne attenuava le linee, i contorni; certe ondulazioni di terreni, invece, si accentuavano, le macchie estese degli alberi annerivano indistinte qua e là, e il biancore delle casette rustiche, il cinereo serpeggiare delle strade rurali segnavano punti quasi luminosi, strane linee appena tracciate, che qualche mano capricciosa forse avrebbe da un momento all’altro scancellati.

Di tratto in tratto, arrivavano gli stridori dei carri, che attraversavano lo stradale più vicino; arrivava acutissimo il fischio di un treno, che stava per sparire dentro la gola di un traforo; e poi, di nuovo, quel silenzio formato da mille piccoli rumori, che l’orecchio percepiva confusamente e che sembravano di essere tutt’una cosa con la tinta quasi uniforme del paesaggio.

Renzo Cellini si era abbandonato a quella ch’egli soleva chiamare la voluttà del silenzio; che gli sarebbe parsa, pensava, anche più dolce nello sfolgorare della luce del giorno, tra la maravigliosa varietà dei colori della campagna e l’azzurro del cielo.

Quell’anno, dopo la morte della madre, realizzata la piccola rendita di un censo dotale, unica cosa sfuggita, non si sapeva come, al gran disastro della famiglia, egli si era proposto di non disperdere, in fuggevoli saggi, la matura attività della sua immaginazione. Da qualche tempo in qua mulinava un lavoro