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IV.
Andrea, sbalordito, rimase un pochino nella stanza da giuoco, presso il tavolino dove il signor Marulli, il Porati e il Regio Procuratore facevano una partita a tressette; poi uscì nell’andito.
— Vuol nulla, signor Gerace?
Non aveva riconosciuto il giovane del suo barbiere mascherato a quel modo, in giubba e cravatta bianca.
— Grazie, — rispose.
— Che confusione, signor Gerace! Non dànno neppure il tempo di riempire i vassoi. Una porcheria!
Andrea lasciò che colui fosse sparito, e aperto un uscio, entrò, richiudendolo subito col paletto.
Il salottino, tappezzato di color verde cupo, con la lampada di bronzo pendente dal soffitto, aveva qualcosa di funebre. Andrea, quasi colpito da paura, girò gli occhi attorno. Un gran vaso di porcellana del Ginori, gl’intagli della consolle di ebano, le sbarre delle seggiole disposte in due righe presso la finestra, la tavola inglese di noce situata nel mezzo, le borchie di un album si accendevano di vivi riflessi fra la tinta scura delle pareti. Un piccolo canapè rannicchiavasi nell’ombra, a sinistra, in quel silenzio pieno d’un terrore indefinito.
— Perchè era venuto lì?... Ah!... Ella voleva parlargli! Dunque sentiva il bisogno di scolparsi, di domandargli perdono? Che poteva mai dirgli?... Il cuore di quella ragazza era proprio un enigma!
Non poteva star fermo; le gambe gli formicolavano. E si rigirava pel salottino, ora guardando la