Pagina:Capuana - Giacinta.djvu/172

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E la levava di culla e la metteva in braccio ad Andrea, perchè la dondolasse o la spasseggiasse, intanto ch’ella, gettatogli un braccio intorno al collo, seguitava a ciangottare colla figliolina il suo strano linguaggio materno: parole mozze, interrogativi, esclamazioni, una fitta di suoni inarticolati, che dicevano più di qualunque ragionevole discorso.

Andrea si adattava malvolentieri a la sua parte di balio. E se la bimba, svegliatasi di cattivo umore, strillava, e non c’era verso di racchetarla e farla addormentare:

— È noiosina! — brontolava, pur continuando a dondolarla.

E le cantava, ridendo di sè stesso, una ninna nanna rimastagli in mente:


Suonno che ’ngannaste a lu leone
’Nganname a Nenna mia pe doje ore;
Suonno che ’ngannaste a lu villano,
’Nganname a Nenna mia ’fin’ a dimane!

XIX.

Dalla stanza dove i dottori aspettavano il loro collega pel consulto, si sentiva di tanto in tanto un urlo, un guaito del povero signor Paolo divorato dalla podagra. Questa volta era troppo! Quei cani arrabbiati che gli pareva d’aver dentro, dopo aver rose le estremità, montavano su, su, per finirlo!

— No, babbo è un accesso come gli altri: lo ha detto il dottore.

Giacinta, accorsa a installarsi da infermiera al capezzale del malato, lo andava confortando così; ma non era sincera.