Pagina:Capuana - Giacinta.djvu/235

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E mentre non sapeva staccar gli occhi dal chicco nerastro chiuso nella boccettina, sentivasi lentamente invadere da una pace profonda. Finalmente era prossima a staccarsi dalla vita e da ogni vanità di essa! Finalmente si sarebbe addormentata per sempre nel fatale sonno del curare!...

— Grazie! Grazie! — mormorava, baciando la boccetta, rivolgendosi verso a un assente, a cui non era mai stata così grata come in quel momento.

Si sentiva forte. Durante la terribile notte, l’energia del suo carattere, che la passione e il dolore avevano negli ultimi mesi alcun poco infiacchita, erasi destata con la vigoria di una volta. Pure, ella stava in guardia contro sè stessa, a quel vivo ripullulare di ricordi, di sensazioni e di sentimenti che pareva cercasse di stornarla dal tristo proposito.

— No; voleva morire... Doveva morire! Era vita la sua? Una continua agonia!

Ma i ricordi insorgevano, la spingevano indietro, fino a quella stanza ingombra di arnesi smessi, dove le ore solitarie della sua fanciullezza eran trascorse in un monotono interminabile soliloquio. Vent’anni volati via in un baleno!

— Com’era stata felice allora, nell’ignoranza di tutto!

Chiuse la finestra. La tepida giornata primaverile, smagliante di luce, che i passeri salutavano col loro cinguettìo dalle grondaie e dai tetti, la commoveva troppo. La vocina limpida e allegra d’un’operaia che cantava Giulia gentil nella casetta dirimpetto, fra il grido dei ragazzi, dei rivenditori, il rumore dei carri e delle carrozze che passavano per la via, già cominciava a turbarla.

— No; meglio morire! — ella disse ad alta voce.