Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/163

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IX

La gran torre di vetro, ove corrotta
la lingua si trasmuta in farfalloni,
portata inverso ’l ciel da’ formiconi,
s’era fino alle nugole condotta;

quand’ella e quel suo mastro di nigotta,
che ’l Nembrotto facea, tra lampi e tuoni
l’un cieco e l’altra in pezzi, a’suoi macchioni
tornando diventáro alocco e grotta.

Allor gli fúr d’intorno a centinaia
e cutrettole e sgriccioli e fringuelli;
e l’oche ne lasciaron le lattuche.

Ma per dar fine a questa cuccovaia,
venga, di quelli alati nanerelli
un che mel tragga fuor delle marruche;

un che ’l naso gli buche,
o gli ne spunti, e con un buon rampollo
gli empia il teschio di menta e di serpollo.

x

Queste son le ruine, e qui la rotta
segui degli orinali e de’ fiasconi :
qui cadde il mastro degli svarioni,
ch’ebbe quasi a storpiar Febo di gotta.

In questo palo s’infilzò la botta,
gonfia di borra: a questi panioni
restar bruchi e forfecchie a milioni:
qui die’ la Rilla il suo carpiccio al Potta.

Questo, ch’era castello, ora è volpaia:
questi pezzi d’ampolle e d’alberelli,
eran torrazzi e cupole e verruche.

Qui cantò ’l gufo, e questa è la cuccaia
ov’or s’intana. Or su, cigni e fanelli,
dalle Canarie insino alle Molluche

cantate: e voi, bizzuche
berte, che vi trovaste al suo barcollo,
ponete il caso al vostro protocollo.